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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

28 Marzo 2010 - Domenica delle Palme (Anno C)

Pubblicato: martedì 23 marzo 2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

La domenica delle palme, che inizia la Settimana Santa, è segnata contemporaneamente dall'ingresso di Gesù in Gerusalemme e dalla narrazione della sua Passione e Morte. La Liturgia, riunendo in un'unica celebrazione questi due avvenimenti, cronologicamente distinti, sembra voler togliere dalla nostra mente ogni equivoco circa il trionfo di Gesù: è vero che Egli entra in Gerusalemme accolto come un re da una folla acclamante ma, aggiunge subito, con la narrazione della passione, che è un re diverso dai re di questo mondo. Gesù regna da un trono che non è come quelli dei palazzi dei re; non vince con gli eserciti o con le alleanze  e neppure si afferma con un suo nutrito e forte gruppo di pressione. Gesù stesso chiarisce questo equivoco sorto tra i discepoli proprio la sera del Giovedì Santo quando, con una sconfinata pazienza, disse loro: "… i re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra di voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve"

Ciascuno di noi al termine della lettura del "Passio", prova un senso di afflizione e di rammarico ed è tentato di dire: "io non lo avrei fatto", oppure di giustificarsi: "non sono Pilato, non sono Erode, non sono nemmeno Giuda..."; si può, inoltre, confessare la propria impotenza di fronte alla viltà di Pilato e alla crudeltà dei sommi sacerdoti. Ma c'è anche Pietro: non è il peggiore dei discepoli, anzi se non è il migliore, è certamente il più importante, quello a cui Gesù ha affidato la maggiore responsabilità. Pietro ha una grande idea di sé, è orgoglioso, persino permaloso. Si offende quando Gesù gli dice che lo tradirà, tanto che risponde: "Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte". Eppure basta una donna, una serva, per far crollare tutto. Fu l'incontro con lo sguardo di Gesù che sconvolse Pietro: "Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto" (Lc 22, 62). Noi cristiani non siamo degli eroi, siamo come tutti; ma se i nostri occhi incrociano gli occhi di quell'Uomo che va a morire per noi, anche noi ricorderemo le parole del Signore e saremo liberati dalle nostre paure.

Il racconto della Passione di Luca comincia con il racconto della festa di Pasqua e attende di sfociare in una nuova festa: la realizzazione del Regno, anche se il compimento è qualcosa di imprevedibile: uno dei due malfattori condannati con Gesù, con un sussulto di fede, si rivolge a Gesù chiedendogli: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno"; e Gesù promette: "oggi sarai con me nel Paradiso". Nell'ora più tragica, l'attesa del Regno di Dio illumina le situazioni più oscure, e Gesù si rivela autenticamente re. Non il re politico, che i capi dipingono a Pilato. non il re di burla, che Pilato crede di eliminare, ma il re che si mette al servizio dei suoi sudditi, rovesciando ogni consuetudine umana.

La Domenica delle Palme, anche per chi stenta ad affidarsi alla fede, ha un particolare fascino: si avvicina la Pasqua, il momento della manifestazione della immensità dell'Amore di Dio, che supera ogni fantasia, ed il momento della manifestazione della miseria umana che, quando smarrisce la sua somiglianza con Dio, diventa un vero inferno spalancato. Pasqua è davvero il confronto della potenza infernale e dell'amore paradisiaco.

Commuove vedere il Signore, che ha fatto il cielo e la terra e che poteva passare tra di noi circondato dallo splendore del cielo, passare e stare fra noi nelle vesti di un povero che ha per trono un puledro.

Commuove vedere il suo arrendersi a quanti lo arresteranno nel Getsemani, il Giovedì Santo, senza la minima resistenza, come fosse "uomo da nulla"; subire il più assurdo processo, vero insulto alla giustizia, perché processo all’innocenza ed alla verità; farsi flagellare ed esporsi al ridicolo della piazza, come fosse il pazzo di turno; non avere vergogna di mostrare la sua debolezza nel salire il Calvario sotto il peso della croce ed avere bisogno di un Cireneo; ed, infine, venire additato, come l'ultimo degli uomini, sulla croce, inerte, come gli fossero scomparse tutte le divine energie e morire con la sensazione di essere lasciato solo fino a dire la preghiera: "Dio mio perché mi hai abbandonato?". Tutto questo davvero è come denudare la nostra superbia e mostrare la vera natura dell'amore, che non ha paura di scendere fino agli ultimi gradini della dignità, per dare quella vita che noi sciupiamo o, molte volte, per ignoranza, copriamo di fango. È in questo mistero della Passione e crocifissione di Gesù, che si può capire cosa voglia dire essere amati da Dio ed amarci.

Lo capiva il santo Massimiliano Kolbe nella cella del campo di sterminio di Aushwitz, condannato per sua scelta con altri dieci, per salvare un altro,  e che morì lentamente di fame e di sete, pregando con i suoi compagni di morte, giorno e notte, fino a infastidire chi li aveva condannati. Lo capiva Madre Teresa di Calcutta che riteneva gioia spendere la vita per chi non aveva vita e grande onore morire nella melma di Calcutta, tra chi non aveva nome e dignità, per dare loro nome e dignità. Questo è il significato che dovremmo dare alla palma, che stringeremo tra le mani: una palma che ci unisce a quanti ancora vedono in Gesù l'amore che salva, ma sacrificando sé stessi.

Io so che, forse, non lo capirò mai del tutto, ma so anche che Cristo, venendo nel mondo, sapeva che non tutti lo avremmo compreso, ma vuole che tutti ci aggrappiamo a lui, afferrandoci alla croce e lasciandoci semplicemente trasportare da Lui, su in alto verso il grande Regno della vita.

"Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno"; è il dono grande di questa domenica, che spalanca, davanti ai nostri occhi, il Mistero del Dio che soffre e muore. Il perdono, prerogativa divina, l'abbiamo contemplato nelle ultime due domeniche, che ci hanno parlato del figlio che ritorna a casa e dell'adultera, che Cristo non condanna, ma avvia ad una vita rinnovata dal suo amore. Il perdono, per gli uomini, non è cosa facile, ma è quel che, maggiormente, sta a cuore a Dio, ed è la ragione per cui il Figlio è morto, pronunciando appunto quelle parole: "Padre perdona loro, perché non sanno..."

Il perdono è il segno inequivocabile e definitivo del fatto che Dio ci ha accolto e sempre ci riaccoglie in Cristo. E di accoglienza ci parla la Liturgia di questa domenica, che inizia col ricordo dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme. La folla, quella di Gerusalemme, come quella di oggi, a tutte le latitudini, assomiglia ad un mostro imprevedibile; essa passa dal delirio dell'acclamazione alla violenza che distrugge. Passeranno solo pochi giorni e quel "re" sarà condannato a morire su una croce sulla quale verrà scritto:"Gesù Nazareno, il Re dei Giudei". Basteranno pochi giorni e quella folla acclamante e che da Gesù era stata spesso beneficata, griderà il suo tremendo "Crocifiggilo!". Un grido ripetuto con forza, un grido che non ammise repliche, neppure quando il governatore Pilato disse di non aver trovato in lui nessun motivo di condanna. Un grido che non si smorzò neppure quando, dopo aver punito Gesù con la flagellazione, lo presentò ancora alla folla forse nella speranza di liberarlo; ma quella moltitudine di uomini, ormai presi nella spirale della violenza, gridò ancora una volta:"Crocifiggilo!".

Il Figlio di Dio si avvia, così, al Calvario, dove si compirà il suo sacrificio.

È facile, infatti, commuoversi al ricordo della Passione di Cristo, ma questa compassione è sterile se non riconduce alla causa di quel dolore disumano, inflitto all'unico Innocente della Storia, e la causa, lo sappiamo bene, è il nostro peccato.

La scorsa domenica, rileggendo l'episodio del Vangelo che narrava dell'adultera condotta davanti a Gesù, abbiamo sentito da Lui quelle parole consolanti: «Donna dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Neanche io ti condanno; va' e, d'ora in poi, non peccare più». Erano parole di perdono, ma quel perdono aveva un prezzo: la morte del Figlio di Dio che ha preso su di sé il peso del nostro peccato, peccato che, altrimenti, avremmo dovuto continuare a portare su di noi, e noi sappiamo bene che da quel peso non ci saremmo mai rialzati. Noi sappiamo che, da soli, non ci saremmo mai convertiti a Dio se Lui, per primo, nella persona del Figlio, non fosse venuto a cercarci, a chiamarci, ad aprirci gli occhi e il cuore. Senza di lui, senza Cristo, saremmo morti, privi di speranza, nei nostri peccati. Egli è dono di Dio, il segno più alto dell'Amore che perdona.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno".

Gesù, crocifisso, chiede il perdono del Padre per i crocifissori. "Questo perdono giunge prima della crocifissione e prima degli insulti che alcuni dei presenti rivolgono al Signore e prima della sua morte. Il perdono viene sempre prima di tutto. Forse non potremmo sopportare di ascoltare il racconto della passione di Cristo se non iniziassimo con il perdono. Prima ancora che pecchiamo siamo già perdonati. Non dobbiamo guadagnarci il perdono e non dobbiamo nemmeno rammaricarci: il perdono è là che ci attende". (T. Radcliffe - Le sette parole di Gesù in croce)

Tuttavia, sia il perdono del Padre che la Croce di Cristo attendono dall'uomo una risposta. La nostra risposta all'Amore del Padre, all'Amore redentivo del Cristo è l'impegno a vivere in obbedienza alla legge di Dio e sull'esempio del Figlio Gesù. La nostra risposta all'Amore che perdona è una vita animata dall'amore; un'esistenza che si sforza di amare, di perdonare, di soccorrere. La nostra risposta è in un'esistenza che, ascoltando il tragico silenzio del Cristo morto in croce, si impegna a non crocifiggere più nessuno, in un mondo che è ancora segnato da migliaia e migliaia di croci.

Davanti al racconto della passione e morte di Cristo, non possiamo che stare in silenzio, un silenzio che non ci tiene ripiegati su noi stessi, ma apre il cuore alla contemplazione dell'Amore estremo di un Dio, fattosi uomo, per prendere su di sé anche il nostro dolore, quello più amaro e struggente, che, solo da Lui, può ricevere luce e conforto.

 

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