Gesù, che nella sinagoga di
Nazareth aveva fatto sue le parole di Isaia e la missione da
lui annunciata di portare il lieto messaggio ai poveri,
segno della predilezione degli ultimi, da parte di Dio, ora
fissa il suo sguardo su quella folla, carica di povertà e
ricca solo di speranza, in quel giovane profeta che avrebbe
potuto guarire, consolare e liberare, perfino dagli spiriti
immondi: tutti, infatti, sapevano che da lui “usciva una
potenza che guariva...” ( Lc. 6,19 )
Gesù che, precedentemente, si
era ritirato sul monte in preghiera, prima di scegliere i
dodici che lo avrebbero seguito più da vicino e avrebbero
condiviso la sua missione, ora scende dal monte e si ferma,
come Luca precisa: “in un luogo pianeggiante...”.
Il brano evangelico di due
domeniche fa, che narra di Gesù nella Sinagoga, si
concludeva con Gesù che si allontanava dalla gente che, non
avendo avuto fede in Lui voleva gettarlo giù dal dirupo; nel
racconto di questa Domenica, invece, Egli sembra confondersi
con tutti quei poveri accorsi a Lui e desiderosi non solo di
ascoltarlo ma di toccarlo, nella certezza, che quel contatto
avrebbe potuto risanarli.
Prima di iniziare il suo
discorso che, ancora oggi ha dell’incredibile, Gesù posa lo
sguardo sui suoi discepoli (non tutti i presenti, infatti
erano seguaci di Gesù) e, con questo gesto, li invita
tacitamente, a quella sequela che li farà “beati”.
“Beati, voi
poveri,...beati, voi, che ora avete fame,...beati voi che
piangete..., beati voi quando gli uomini vi odieranno, vi
metteranno al bando,...vi insulteranno.... a causa del
Figlio dell’Uomo...”; con questo discorso Gesù non
esalta né il pianto, né la fame, né l’indigenza, né la
persecuzione o quant’altro rechi dolore all’uomo, ma afferma
che la fede in Lui, il Figlio di Dio, che ha condiviso e
preso su di sé tutto il dolore dell’uomo, può trasformare in
beatitudine anche le situazioni di sofferenza estrema; il
racconto, infatti, si conclude con quell’ammonimento
terribile, quel: “Guai a voi”, più volte ripetuto,
all’indirizzo di quanti, chiusi nel loro soddisfatto egoismo
e nella loro superba autosufficienza, vivono incuranti di
Dio e del prossimo bisognoso di aiuto, di giustizia e di
solidarietà.
Uno di questi “guai” riguarda
chi vive da “sazio” e non da “affamato”. La beatitudine, al
contrario, suona così: “Beati gli affamati perché saranno
saziati”. Ma quale è, dunque, la “fame” che può renderci
“beati”? E quale è la sazietà a cui la Parola si riferisce?
Si tratta di una “sazietà” che dapprima assopisce, poi
addormenta e da ultimo spegne in noi la “fame e sete di Dio”
e della sua giustizia che è santità. Una sazietà che ci
porta a vivere ingrassandoci di beni solo terreni; a
soddisfarci, appunto fino alla sazietà, di tutte le brame:
quella del mangiare, del bere, del comperare, spesso a caro
prezzo, cose inutili e riempitivi vari. Una sazietà che ci
porta a non essere mai abbastanza “sazi” di gratificazioni,
le più varie: da quella di sentirsi ammirati, complimentati,
approvati, a quella di cercare il pieno appagamento in tutte
le possibili comodità.
Diceva S. Giovanni Bosco ai
suoi giovani: «Da tavola bisogna alzarsi ancora con un
pizzico di appetito. Quanto abbuffarsi, a volte, anche con
danno della salute fisica! Quanto alla salute spirituale
bisogna dire che, se cammini col Signore, non sei mai sazio
neppure di ogni bellezza, verità e bontà. Tutto ti diventa
sereno stimolo ad andare oltre. C’è sempre un “più” alla mia
fame di bene, se il Signore è il mio sole, la mia meta, il
tutto che illumina e dà senso al relativo delle mie giornate».
La “beatitudine”, qualunque
sia la condizione in cui l’uomo vive, sta nell’incontrare
Cristo, e fare di Lui la pietra angolare, la roccia su cui
costruire tutta l’esistenza.
Solo la fede in Gesù, Figlio
di Dio, può dare, allora, ragione della povertà vissuta in
pace, del pianto che attende conforto, così, come soltanto
la fede può dare la forza nelle persecuzioni, affrontate nel
nome di Lui.
Il senso vero della
beatitudine possiamo leggerlo, anche, nel breve passo del
profeta Geremia che così recita riguardo a chiunque si
affidi pienamente a Dio e riponga in Lui tutta la sua
speranza: “...beato l’uomo che confida nel Signore e il
Signore è la sua fiducia. Egli è come un albero piantato
lungo l’acqua, verso la corrente stende le radici; non teme
quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi;
nell’anno della siccità non intristisce, non smette di
produrre i suoi frutti.” (I Lettura)
Chi ha fatto di Cristo, la
scelta fondamentale della vita, chi ha Lui come pastore da
seguire, Lui come Via da percorrere, nella certezza che la
speranza di raggiungere la felicità che non andrà delusa è
già beato sulla terra.
Beatitudine è accogliere la
parola del Vangelo, in tutta la sua ricchezza; beatitudine è
tener presente e vivo Cristo, nella propria vita, e
contemplarne il Mistero.
L’amore e la sequela di
Cristo, infatti, sono la ragione profonda di tutto il
discorso delle beatitudini; al di fuori della fede nel
Figlio di Dio, morto e risorto per noi, quelle beatitudini,
che parlano di povertà e di pianto, sarebbero soltanto
stoltezza, come Paolo scrive: “... se Cristo non è
risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri
peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono
perduti. Se poi, noi abbiamo avuto speranza in Cristo,
soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti
gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti,
primizia di coloro che sono morti”. (II Lettura)
Il discorso delle beatitudini
è, dunque, un banco di prova della fede e dell’amore a
Cristo Redentore; scrive Paolo nella Lettera ai Romani: “Chi
ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione,
l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il
pericolo, la spada?.... Ma in tutte queste cose noi siamo
più che vincitori in Colui che ci ha amati”. (Rom
8,35-38)
Gesù sa che i poveri, quelli
che hanno fame, quelli che piangono, quelli che sono
perseguitati, conoscono la fragilità della vita, confidano
in Dio più che in sé stessi, sentono il bisogno di essere
salvati dal peccato, dalla morte, sono disposti ad aiutarsi
a vicenda e aspettano l’aiuto e la salvezza di Dio. Sono
quindi nella condizione giusta, nella corretta apertura a
Dio per accettare il suo Regno.
La povertà di cui parla Gesù
è la scelta per il Regno, la decisione di porsi dietro i
passi di Gesù con un cuore disponibile a lasciarsi rinnovare
da Dio.
I ricchi, quelli che sono
sazi, quelli che ridono e sono contenti di come vanno le
cose del mondo, quelli che vengono lodati e approvati da
tutti, non sentono il bisogno di Dio, non attendono né
sperano nulla da Lui: non avvertono la necessità che Dio li
aiuti e li salvi. Non entreranno, quindi, nel Regno di Dio,
ma rimarranno chiusi nel loro egoismo. Gesù li considera dei
falliti in questa vita, perché non sentiranno mai la gioia
di essere figli di Dio, di vivere come fratelli, di
sacrificarsi per gli altri. Le parole di Gesù rovesciano la
mentalità corrente, quella che stima beati i ricchi e i
potenti. È la nuova mentalità dei cristiani, che farà di
loro il popolo nuovo della Terra: un popolo attento agli
umili, ai miseri, agli emarginati, un popolo che vede Gesù
nei sofferenti e spezza con loro il pane.
Dice il Catechismo della
Chiesa Cattolica: «La beatitudine promessa da Gesù ci
insegna che la vera felicità non si trova nelle ricchezze o
nel benessere... ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di
ogni amore. Ci invita a purificare il cuore dai suoi istinti
cattivi e a cercare l’amore di Dio sopra di tutto.
[Purtroppo però] alla ricchezza tutta la massa degli uomini
tributa un omaggio istintivo. La ricchezza è quindi uno
degli idoli del nostro tempo» (n. 1723).
A chi legge le beatitudini di
Gesù una domanda viene spontanea: il Regno di Dio si
realizzerà solo dopo questa vita, nella casa del Padre, o
avrà inizio in questo mondo così satanizzato, quello
occidentale almeno, dal consumismo e dall’idolatria del
denaro?
Leggendo il Vangelo possiamo
vedere come Gesù prevede la realizzazione piena del Regno e
delle beatitudini nella casa del Padre; ma affidò anche ai
cristiani e alle persone di buona volontà l’inizio della
loro realizzazione in questa vita, per dare speranza al
mondo, per dare gioia a chi è afflitto e nutrimento a chi
soffre la fame.