Fu
S. Francesco a volere ricordare il Natale, costruendo il
primo presepio e si racconta che, contemplando il grande
evento, che era in quel segno, non riuscisse che a
balbettare, per l’emozione, il nome di Gesù.
Più che leggere il racconto
del Vangelo di Natale, che è la sola gioia per chi crede
oggi, è necessario “entrarvi dentro” con la contemplazione.
Per entrare nel racconto del
Natale, una cosa ci è soprattutto necessaria: una grande
semplicità. Solo chi ha, o sa darsi, occhi di bambino è
capace di stupirsi sempre di nuovo di ciò che ascolta la
notte di Natale. Lo stupore è la porta per entrare
nell’adorazione e nella gioia del Natale. Chi vuole fare il
grande, l’adulto, il ragionatore, anche davanti al suo Dio
che si fa bambino, non capirà nulla. Forse sarà fisicamente
con noi durante le celebrazioni, ma il suo cuore e la sua
mente saranno altrove.
È difficile, nel mondo e nel
modo in cui viviamo, cogliere l’immensa grandezza di ciò che
significa per gli uomini, per ciascun uomo, il Natale di
Gesù.
Siamo circondati da troppi
rumori, che ci impediscono “il dolce dialogo della pace di
Dio”. Come Marta siamo concentrati su troppi “affanni
della vita” (Lc 10,40), per poter cogliere il “sussurro
dello Spirito”. Eppure ne sentiamo la necessità, soprattutto
oggi, tempo di ansie, di paure, di povertà, di solitudine.
Desideriamo, forse inconsciamente, ma profondamente, segni
di speranza e pace, che ridiano sicurezza alla nostra
fragile esistenza.
Forse a noi, vittime del
chiasso che si è creato per le tante attrattive del
“mercato”, cui solo interessa il consumo e il guadagno, non
arriva il canto degli Angeli. Ma è prerogativa dell’Amore
farsi vicino a noi “in punta di piedi”, come avvenne nel
Natale a Betlemme: una mangiatoia, un Bambino, un
contemplare e comunicare senza neppure parlare.
Farsi raggiungere da quel
divino Amore significa diventare noi “nuda mangiatoia”,
perché l’Amore la occupi tutta, convinti che ogni minimo
spazio negato è negato all’Amore.
Non riusciremo mai a
comprendere la grandezza del dono che il Padre ha fatto
all’uomo, ad ogni uomo, donando il suo unico Figlio...
…Dio, stanco di non essere
capito, di essere frainteso, di essere usato per i nostri
interessi, stanco di essere tirato in ballo per coprire le
vergognose nudità della nostra pigrizia e del nostro
egoismo, stanco di assistere al nostro celebrare noi stessi,
esausto dall’essere tirato per la giacca a benedire ogni
“guerra” che si combatte dalla parrocchia all’estrema
periferia del mondo, addolorato per essere accusato di colpe
che non ha ma che tutti gli attribuiamo, decide di diventare
uomo, di condividere in tutto la nostra umanità, di
raccontarsi per farsi conoscere e, speriamo, amare.
Un gesto d’amore semplice,
folle, inconcepibile: Dio diventa uomo, abbandona la sua
divinità. dimentica
la sua onnipotenza, per sperimentare tutto il dolore, la
fragilità e lo sbandamento che l’uomo sperimenta.
E perché nessuno possa
accusare Dio di essere diventato uomo in modo privilegiato,
sceglie di diventare uomo nel più povero dei modi, nel più
misero dei tempi, affidato all’imperizia di una generosa
coppia di provincia, esule, costretto a nascere in un luogo
conosciuto solo perché ha visto nascere Davide figlio di
Iesse, re potente in Giudea, a causa del delirio di
onnipotenza di un Imperatore oppressore.
Nella notte fredda del
deserto, a Betlemme, in una grotta che serviva a dare riparo
ai pastori, disprezzati lavoranti del tempo, sottopagati e
clandestini, il Figlio di Dio irrompe nella storia.
La storia si ferma, il
tempo è compiuto, il cielo ha donato il giusto delle genti.
Questo è Dio, non quello
piccino e meschino che noi annunciamo con la nostra condotta
di vita, non quello incostante e terribile delle nostre
paure. Dio è un neonato con gli occhi socchiusi e la pelle
grinzosa che Maria stringe forte a sé, per ripararlo dal
freddo della notte, un neonato che cerca il piccolo seno
della madre per allattare, un neonato tenero e fragile.
Vorremmo un Dio potente, che
ascolta la nostra preghiera, che esaudisce le nostre
richieste, e ci troviamo un Dio che ci chiede aiuto.
Vorremmo un Dio decisionista,
disposto a cambiare i destini della storia, punendo i
malvagi, e invece proprio i malvagi vogliono ucciderlo.
Vorremmo un Dio che quando ci
fa comodo se ne stesse sulle nuvole, non pensasse a noi e si
facesse gli “affari suoi” e invece è sempre “con noi”.
Vorremmo un Dio potente, non
il più fragile delle creature! Un Dio che ci risolvesse i
problemi, non uno che ce ne crei!
L’idea del Dio potente,
decisionista, che si fa gli affari suoi, terribile e
vendicatore è fasulla e pagana, perché Dio ama, prima di
essere amato, non risolve i problemi ma li condivide, invita
a vedere le cose in modo diverso. Ci spaventa e ci inquieta
il vero volto di Dio.
Ogni bimbo che nasce in
questa terra è un segno che Dio ama ancora gli uomini e si
fida ancora di noi. Ma il bambino di cui commemoriamo la
nascita reca ben altri motivi di speranza e di gioia. “Sulle
sue spalle è il segno della sovranità... Grande sarà il suo
dominio e la pace non avrà fine... Egli viene a consolidare
la giustizia”. Con lui, ha proseguito san Paolo nella
seconda lettura, “è apparsa la benignità di Dio,
apportatrice di salvezza per tutti gli uomini”. Tutti
questi motivi li abbiamo poi sentiti riassunti nel primo
annuncio del Natale, quello fatto ai pastori: “Non
temete, ecco vi annuncio una grande gioia che sarà per tutto
il popolo: oggi è nato un Salvatore. Questo per voi il
segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in
una mangiatoia”.
Possiamo fermarci qui. Il
paradosso del Natale (e dell’intero Vangelo) è tutto
contenuto in queste parole. Grandi cose si attendevano da
questa nascita, lo abbiamo sentito: gioia, pace, giustizia,
salvezza. E poi eccoci condotti davanti a un bambino in una
stalla, davanti allo spettacolo di un concentrato di
debolezza, di impotenza e di povertà che l’umanità abbia mai
immaginato. Completano questo quadro Maria e Giuseppe, due
di quelle creature per le quali non c’è mai posto
nell’albergo. La pace e la giustizia per tutto il mondo
vengono da uno che non ha avuto neppure una casa per
nascere.
Anche Cesare Augusto si
faceva chiamare salvatore e principe della pace. Dopo di
lui, ogni imperatore che saliva al trono era salutato con
scritte incise sulle monete che lo chiamavano “restauratore
del mondo”, “atteso delle genti”, “restitutore della luce”.
E, in verità, gli uomini fino a quel giorno avevano sempre
pensato che solo chi è forte, chi ha eserciti, chi ha il
comando, può imporre agli altri la pace e portare la
salvezza.
Dio ha rovesciato, con il
Natale di Cristo, tutte queste false certezze degli uomini.
Solo Dio poteva pensare a un rovesciamento così totale della
logica umana; solo lui poteva pronunciare un “no” così
potente a ciò che gli uomini hanno sempre posto in cima alla
loro scala di valori: alla ricchezza, al potere, agli onori,
all’autorità. Noi, da soli, non ci avremmo mai pensato.
Avrebbe potuto nascere a
Roma, nella reggia imperiale, come figlio del più potente
della terra.
Ma avrebbe detto “si” a ciò
che gli uomini avevano sempre pensato. Nulla di veramente
nuovo sarebbe cominciato, nessun corso nuovo nel mondo.
Invece, per Lui, più che farsi uomo, era importante farsi
povero e umile, così ha dato davvero una speranza ai poveri
della terra, ai derelitti, a quelli che non contano, ha dato
una speranza “a tutto il popolo”, perché non tutti possono
essere ricchi, sapienti e forti in questo mondo, ma tutti
possono diventare umili.
Una cosa ci resta ora da
capire: che la speranza di pace e di giustizia che la
nascita di Gesù reca ai poveri non è un tranquillante per
nessuno; non è un “oppio del popolo”; non è, cioè, un
surrogato di quella pace e di quella giustizia che tanto
tormentano gli uomini di oggi, ma ne è la premessa e il
fondamento.
A dire il vero, a Natale c’è
anche un motivo di tristezza: è di vedere scomparire proprio
la gioia, soprattutto la gioia dei bambini che ne era la
manifestazione più bella.
In questi giorni sono andato
in alcuni centri commerciali per lavoro. Ho incontrato
centinaia, forse migliaia, di bambini. I loro volti ansiosi
e cupi, i loro occhi tristi guardavano tutti lontano, alla
ricerca degli ultimi ritrovati della tecnologia; erano
frastornati dalle luci e dai rumori.
in migliaia di
metri quadri di esposizioni i loro occhi incrociavano solo
luci, palline colorate e tante proposte di giochi assurdi e
violenti; non un presepio, non un’immagine che richiamasse
il vero motivo di tutte quelle luci. Nell’unico presepio che
ho visto il Bambinello era sostituito da un orologio. Natale
senza neppure un Bambinello ma tanti, troppi, babbi natale!
Il Bambino Gesù è assurdamente sostituito da un oggetto di
consumo o, nel migliore dei casi, da Babbo Natale, ma un
Natale senza Gesù Bambino non è natale: è una festa senza il
festeggiato. Anche in paesi di antica tradizione cristiana
come l’Italia il Natale rischia di diventare solo una festa
invernale.
Nella messa di mezzanotte
riascolteremo l’annuncio dell’Angelo ai pastori: “Vi
annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi
vi è nato un Salvatore”.
L’annuncio dell’angelo
riguarda noi: ogni volta che accogliamo Gesù si può tornare
alla gioia. Papa Benedetto ripete spesso: “La gioia ha un
nome ed un volto, la gioia non è un sentimento, ma una
Persona: Gesù di Nazareth”.
Gesù è nato, ora tocca a noi
accoglierlo nel nostro cuore come la mangiatoia lo accolse
nella grotta di Betlemme.
Buon Natale.