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Riflessione sul Vangelo Festivo

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

25 Dicembre 2009 - Natale del Signore

Pubblicato: lunedì 21 dicembre 2009

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

Fu S. Francesco a volere ricordare il Natale, costruendo il primo presepio e si racconta che, contemplando il grande evento, che era in quel segno, non riuscisse che a balbettare, per l’emozione, il nome di Gesù.

Più che leggere il racconto del Vangelo di Natale, che è la sola gioia per chi crede oggi, è necessario “entrarvi dentro” con la contemplazione.

Per entrare nel racconto del Natale, una cosa ci è soprattutto necessaria: una grande semplicità. Solo chi ha, o sa darsi, occhi di bambino è capace di stupirsi sempre di nuovo di ciò che ascolta la notte di Natale. Lo stupore è la porta per entrare nell’adorazione e nella gioia del Natale. Chi vuole fare il grande, l’adulto, il ragionatore, anche davanti al suo Dio che si fa bambino, non capirà nulla. Forse sarà fisicamente con noi durante le celebrazioni, ma il suo cuore e la sua mente saranno altrove.

È difficile, nel mondo e nel modo in cui viviamo, cogliere l’immensa grandezza di ciò che significa per gli uomini, per ciascun uomo, il Natale di Gesù.

Siamo circondati da troppi rumori, che ci impediscono “il dolce dialogo della pace di Dio”. Come Marta  siamo concentrati su troppi “affanni della vita” (Lc 10,40), per poter cogliere il “sussurro dello Spirito”. Eppure ne sentiamo la necessità, soprattutto oggi, tempo di ansie, di paure, di povertà, di solitudine. Desideriamo, forse inconsciamente, ma profondamente, segni di speranza e pace, che ridiano sicurezza alla nostra fragile esistenza.

Forse a noi, vittime del chiasso che si è creato per le tante attrattive del “mercato”, cui solo interessa il consumo e il guadagno, non arriva il canto degli Angeli. Ma è prerogativa dell’Amore farsi vicino a noi “in punta di piedi”, come avvenne nel Natale a Betlemme: una mangiatoia, un Bambino, un contemplare e comunicare senza neppure parlare.

Farsi raggiungere da quel divino Amore significa diventare noi “nuda mangiatoia”, perché l’Amore la occupi tutta, convinti che ogni minimo spazio negato è negato all’Amore.

Non riusciremo mai a comprendere la grandezza del dono che il Padre ha fatto all’uomo, ad ogni uomo, donando il suo unico Figlio...

…Dio, stanco di non essere capito, di essere frainteso, di essere usato per i nostri interessi, stanco di essere tirato in ballo per coprire le vergognose nudità della nostra pigrizia e del nostro egoismo, stanco di assistere al nostro celebrare noi stessi, esausto dall’essere tirato per la giacca a benedire ogni “guerra” che si combatte dalla parrocchia all’estrema periferia del mondo, addolorato per essere accusato di colpe che non ha ma che tutti gli attribuiamo, decide di diventare uomo, di condividere in tutto la nostra umanità, di raccontarsi per farsi conoscere e, speriamo, amare.

Un gesto d’amore semplice, folle, inconcepibile: Dio diventa uomo, abbandona la sua divinità. dimentica la sua onnipotenza, per sperimentare tutto il dolore, la fragilità e lo sbandamento che l’uomo sperimenta.

E perché nessuno possa accusare Dio di essere diventato uomo in modo privilegiato, sceglie di diventare uomo nel più povero dei modi, nel più misero dei tempi, affidato all’imperizia di una generosa coppia di provincia, esule, costretto a nascere in un luogo conosciuto solo perché ha visto nascere Davide figlio di Iesse, re potente in Giudea, a causa del delirio di onnipotenza di un Imperatore oppressore.

Nella notte fredda del deserto, a Betlemme, in una grotta che serviva a dare riparo ai pastori, disprezzati lavoranti del tempo, sottopagati e clandestini, il Figlio di Dio irrompe nella storia.

La storia si ferma, il tempo è compiuto, il cielo ha donato il giusto delle genti.

Questo è Dio, non quello piccino e meschino che noi annunciamo con la nostra condotta di vita, non quello incostante e terribile delle nostre paure. Dio è un neonato con gli occhi socchiusi e la pelle grinzosa che Maria stringe forte a sé, per ripararlo dal freddo della notte, un neonato che cerca il piccolo seno della madre per allattare, un neonato tenero e fragile.

Vorremmo un Dio potente, che ascolta la nostra preghiera, che esaudisce le nostre richieste, e ci troviamo un Dio che ci chiede aiuto.

Vorremmo un Dio decisionista, disposto a cambiare i destini della storia, punendo i malvagi, e invece proprio i malvagi vogliono ucciderlo.

Vorremmo un Dio che quando ci fa comodo se ne stesse sulle nuvole, non pensasse a noi e si facesse gli “affari suoi” e invece è sempre  “con noi”.

Vorremmo un Dio potente, non il più fragile delle creature! Un Dio che ci risolvesse i problemi, non uno che ce ne crei!

L’idea del Dio potente, decisionista, che si fa gli affari suoi, terribile e  vendicatore è fasulla e pagana, perché Dio ama, prima di essere amato, non risolve i problemi ma li condivide, invita a vedere le cose in modo diverso. Ci spaventa e ci inquieta il vero volto di Dio.

Ogni bimbo che nasce in questa terra è un segno che Dio ama ancora gli uomini e si fida ancora di noi. Ma il bambino di cui commemoriamo la nascita reca ben altri motivi di speranza e di gioia. “Sulle sue spalle è il segno della sovranità... Grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine... Egli viene a consolidare la giustizia”. Con lui, ha proseguito san Paolo nella seconda lettura, “è apparsa la benignità di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini”. Tutti questi motivi li abbiamo poi sentiti riassunti nel primo annuncio del Natale, quello fatto ai pastori: “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia che sarà per tutto il popolo: oggi è nato un Salvatore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.

Possiamo fermarci qui. Il paradosso del Natale (e dell’intero Vangelo) è tutto contenuto in queste parole. Grandi cose si attendevano da questa nascita, lo abbiamo sentito: gioia, pace, giustizia, salvezza. E poi eccoci condotti davanti a un bambino in una stalla, davanti allo spettacolo di un concentrato di debolezza, di impotenza e di povertà che l’umanità abbia mai immaginato. Completano questo quadro Maria e Giuseppe, due di quelle creature per le quali non c’è mai posto nell’albergo. La pace e la giustizia per tutto il mondo vengono da uno che non ha avuto neppure una casa per nascere.

Anche Cesare Augusto si faceva chiamare salvatore e principe della pace. Dopo di lui, ogni imperatore che saliva al trono era salutato con scritte incise sulle monete che lo chiamavano “restauratore del mondo”, “atteso delle genti”, “restitutore della luce”. E, in verità, gli uomini fino a quel giorno avevano sempre pensato che solo chi è forte, chi ha eserciti, chi ha il comando, può imporre agli altri la pace e portare la salvezza.

Dio ha rovesciato, con il Natale di Cristo, tutte queste false certezze degli uomini. Solo Dio poteva pensare a un rovesciamento così totale della logica umana; solo lui poteva pronunciare un “no” così potente a ciò che gli uomini hanno sempre posto in cima alla loro scala di valori: alla ricchezza, al potere, agli onori, all’autorità. Noi, da soli, non ci avremmo mai pensato.

Avrebbe potuto nascere a Roma, nella reggia imperiale, come figlio del più potente della terra.

Ma avrebbe detto “si” a ciò che gli uomini avevano sempre pensato. Nulla di veramente nuovo sarebbe cominciato, nessun corso nuovo nel mondo. Invece, per Lui, più che farsi uomo, era importante farsi povero e umile, così ha dato davvero una speranza ai poveri della terra, ai derelitti, a quelli che non contano, ha dato una speranza “a tutto il popolo”, perché non tutti possono essere ricchi, sapienti e forti in questo mondo, ma tutti possono diventare umili.

Una cosa ci resta ora da capire: che la speranza di pace e di giustizia che la nascita di Gesù reca ai poveri non è un tranquillante per nessuno; non è un “oppio del popolo”; non è, cioè, un surrogato di quella pace e di quella giustizia che tanto tormentano gli uomini di oggi, ma ne è la premessa e il fondamento.

A dire il vero, a Natale c’è anche un motivo di tristezza: è di vedere scomparire proprio la gioia, soprattutto la gioia dei bambini che ne era la manifestazione più bella.

In questi giorni sono andato in alcuni centri commerciali per lavoro. Ho incontrato centinaia, forse migliaia, di bambini. I loro volti ansiosi e cupi, i loro occhi tristi guardavano tutti lontano, alla ricerca degli ultimi ritrovati della tecnologia; erano frastornati dalle luci e dai rumori. in migliaia di metri quadri di esposizioni i loro occhi incrociavano solo luci, palline colorate e tante proposte di giochi assurdi e violenti; non un presepio, non un’immagine che richiamasse il vero motivo di tutte quelle luci. Nell’unico presepio che ho visto il Bambinello era sostituito da un orologio. Natale senza neppure un Bambinello ma tanti, troppi, babbi natale! Il Bambino Gesù è assurdamente sostituito da un oggetto di consumo o, nel migliore dei casi, da Babbo Natale, ma un Natale senza Gesù Bambino non è natale: è una festa senza il festeggiato. Anche in paesi di antica tradizione cristiana come l’Italia il Natale rischia di diventare solo una festa invernale.

Nella messa di mezzanotte riascolteremo l’annuncio dell’Angelo ai pastori: “Vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato un Salvatore”.

L’annuncio dell’angelo riguarda noi: ogni volta che accogliamo Gesù si può tornare alla gioia. Papa Benedetto ripete spesso: “La gioia ha un nome ed un volto, la gioia non è un sentimento, ma una Persona: Gesù di Nazareth”.

Gesù è nato, ora tocca a noi accoglierlo nel nostro cuore come la mangiatoia lo accolse nella grotta di Betlemme.

Buon Natale.

 

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