“Quando, Giuda fu uscito dal cenacolo...”; questo, il
riferimento temporale, che introduce il passo del Vangelo di
questa V Domenica di Pasqua, un brano molto breve, ma
altrettanto ricco di significati, che interrompe il racconto
delle apparizioni.
Questo passo di Vangelo si riferisce all’ “Ora” riguardo
alla quale Gesù aveva detto: “Quando sarò innalzato da
terra, attirerò tutti a me...” (Gv. 12,32) un
innalzamento, che è, appunto, la sua Gloria, non quella
trionfalistica alla quale, con la nostra logica mondana,
siamo abituati, ma la Gloria, che è il frutto dell’Amore
incondizionato ed assoluto, che il Figlio ha per il Padre e,
in Lui, per ogni creatura che ne porta, indelebile,
l’immagine. In Giovanni, l’idea della Gloria è quella della
“rivelazione”: una rivelazione progressiva che Gesù realizza
per mezzo di “segni” e, soprattutto, per mezzo della sua
“adesione incondizionata” al progetto del Padre, fino alla
morte di Croce. La totale fedeltà alla volontà del Padre e
la totale coerenza nell’esecuzione del progetto divino danno
a Gesù l’unicità del suo essere figlio.
Nell’Antico Testamento si credeva che Dio manifestasse la
sua Gloria nei fenomeni della natura: fuoco, lampi, tuoni,
tempeste, ecc; provocando un misto di curiosità che attrae e
di paura che provoca distanza. Per il Vangelo di Giovanni,
Gesù manifesta la Gloria di Dio per il fatto di essere uno
di noi, estremamente umano, al punto di diventare divino. La
Gloria di Dio è l’umano Gesù, che conferisce al nostro
essere “umani” la sua espressione più alta. Nella cultura
biblica, la “gloria” è qualcosa che ha a che vedere con
l’autorevolezza e la rilevanza di una persona: è il suo
valore. Glorificare qualcuno significa farlo conoscere per
quello che è, per quello che conta. Per Gesù non c’è altro
modo che questo: avvicinarsi a noi, abbassarsi, farsi
prossimo, consegnarsi in totale disponibilità al piano
salvifico. Ecco perché in Gesù il Padre è glorificato: è Lui
che ha dispiegato dinanzi ai nostri occhi l’amore
trinitario, e l’ha fatto schierandosi decisamente a servizio
della vita, fino ad offrirla per noi. L’Ora del Calvario
diventa, dunque, per Gesù l’occasione suprema per far
conoscere chi è davvero Dio: Colui che, per dare la vita,
ama fino alle estreme conseguenze e si lascia inghiottire
dalla morte; dice Gesù “Nessuno ha un amore più grande
di questo: dare la vita per i propri amici”.
L’amore di Dio, del Figlio Gesù, che è Dio col Padre, passa,
dunque, attraverso la Croce, senza la quale non si può
comprendere il Mistero di Cristo Redentore; perché, senza
quella Croce, Gesù di Nazareth, è solo uno dei più grandi
personaggi della storia, del quale tanto si è detto e tanto,
ancora, si può dire; ma, è esclusivamente per quella Croce,
sulla quale è morto per amore, che noi lo riconosciamo come
nostro Dio. Per amore, il Figlio di Dio si è umiliato, si è
fatto servo e servo obbediente, “fino alla morte e alla
morte di croce” (Fil.2,7-8), e il suo Amore, per
l’umanità peccatrice, è gratuito: nessuno di noi può
accampare meriti, per riceverlo, e nessuno può dare niente
in cambio, tuttavia Dio, in Cristo, ci ama e ciò in piena
assoluta gratuità.
Questo brano ci porta all’essenziale: le nostre azioni di
amore saranno il giudizio finale sulla nostra vita: “non
solo con parole e bocca, ma con azioni e in verità” (1
Gv 3,18). E non si tratta solo di rendere un culto a Dio,
bensì di incarnare la Vita stessa, credere che la nostra
“umanità” viene da Dio ed in questa umanità piena di amore e
di fedeltà si rivela il centro della nostra fede. Forse
abbiamo perso l’essenziale e lo rivestiamo di precetti, di
norme, di tradizioni, deboli segni per l’uomo d’oggi, perché
questo “amore fraterno” non emerge nelle nostre relazioni.
Possiamo essere commensali di Lui, condividere lo stesso
Pane e Vino, ma col cuore lontano, magari già a braccetto
con la negazione del progetto divino. Certo la Celebrazione
è necessaria, ma diventa insipida se non ci sprona ad
amarci. E questo amarci implica azione, coraggio, annuncio e
denuncia, nella coerenza del rispetto alla Vita di ognuno.
Gesù nel congedarsi dai suoi, sapendo che è giunta la sua
ora, non chiede niente per se stesso, chiede a noi di
amarci; solo così Lui potrà continuare a vivere in noi.
Altrimenti, lo seppelliremo con tutte le pompe ed incensi,
ma non sarà più con noi, sarà solo un’immagine da
contemplare e non un progetto da vivere. Di fronte
all’imminente partenza di Gesù, la comunità ha un solo
cammino per continuare a vivere unita a Lui: vivere l’Amore.
É lo statuto e l’identità di chi pretende di rimanere unito
a Gesù. É il “comandamento nuovo”: «Amatevi gli uni gli
altri». Gesù non dice: “amatemi come io vi ho amato”.
Non chiede retribuzione per se stesso. Chiede che i
discepoli si amino gli uni gli altri. É così che ameranno
Gesù. L’amore è attivo e deve essere manifestato con gesti.
In questo modo, la rivelazione di Gesù si prolunga
nell’amore delle persone nella comunità: “Da questo
riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete
amore gli uni per gli altri”. Niente è più scandaloso
agli occhi degli uomini, che vedere dei cristiani rifiutare
la testimonianza del loro amore vicendevole. È necessario,
però, che questa testimonianza non sia puramente esteriore:
essa deve esprimere una vera e profonda unità di fede e di
amore. Un amore forzato è solo una maschera dell'amore,
frustrante per chi lo offre ma, forse ancora di più, per chi
ne è destinatario. Amare è cosa difficile. Amare non è solo
dare, è molto di più: è donarsi! Comprendere gli altri,
capire le loro difficoltà e le loro necessità, perdonare con
tutto il cuore, servire senza speranza di essere ricambiati.
Amare significa giungere, se è necessario, fino a dare la
vita, sull’esempio di Cristo. Amare vuol dire rinunciare a
se stessi per pensare agli altri.
Il comandamento nuovo non è semplicemente amatevi, ma
amatevi gli uni gli altri. Parole che ci donano infiniti
oggetti d’amore: gli altri, tutti. Guai se ci fosse un
aggettivo a qualificare chi merita il nostro amore: giusti o
ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani. È l’uomo,
ogni uomo, perfino l’inamabile, perfino Caino. L’altro mi
riguarda, appartiene alle mie cure, è scritto nei miei
pensieri, gli sto accanto. Non è mio pari, è di più.
Il comando nuovo continua: «amatevi come io vi ho amato».
La novità del cristianesimo non è l’amore, ma “l’amore come
quello di Cristo”. Gli uomini amano, il cristiano ama al
modo di Gesù, custodendo nel cuore, ravvivando nella memoria
il «come» Gesù ha amato. Questa è “la scuola dell’amore”.
L’amore è Lui: quando lava i piedi ai suoi discepoli; quando
si rivolge a Giuda che lo tradisce chiamandolo: amico;
quando prega per chi lo uccide: “Padre, perdonali perché
non sanno quello che fanno”; quando piange per l’amico
morto o esulta per il nardo profumato dell’amica, o
ricomincia dai più perduti. Si tratta di riprendere in mano
il Vangelo e ritrovare e ricomporre tutte le tessere del
mosaico di come Gesù ha mostrato Amore. E questo «come»
ritma tutto il Vangelo, racchiude l’essenza del nostro
discepolato, contiene la statura dell’uomo perfetto: vivere
come lui, misericordiosi come il Padre, fare la sua volontà
in terra come in cielo.
Il comandamento dell’amore era già presente nella legge
antica: “Ama il tuo prossimo come te stesso” recita
il Libro del Levitico (Lv.19,18); comandamento che Gesù ha
arricchito, esortando gli uomini alla riconciliazione e
all’amore rivolto anche al nemico: “Avete inteso che fu
detto: amerai il tuo prossimo, e odierai il tuo nemico. Io
invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli
che vi perseguitano...sarete perfetti, come è perfetto il
Padre vostro che è nei cieli”. ( Mt.5,43-48)
Adesso il Signore chiede di andare oltre, nella via
dell’amore, che ormai deve avere una portata più vasta,
perché la sua misura dell’amore vero è quella di Cristo, il
quale ama da Figlio e perciò da Dio.
Il comandamento nuovo è un’eredità lasciataci da Cristo,
alla vigilia della Sua Passione, Morte e Resurrezione; è,
perciò, un dono pasquale da accogliere, da vivere e da
diffondere, con la stessa modalità con la quale, il Signore
Gesù ci ha amato.