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Riflessione sulle Letture Festive

a cura del Diacono Gaetano Bellino

 

Anno Liturgico 2009-2010 (Anno C)

 

 

2 Maggio 2010 - V Domenica di Pasqua (Anno C)

Pubblicato: lunedì 26 aprirle  2010

Se vuoi, prima di leggere la riflessione, clicca qui per le letture dal Lezionario

Quando, Giuda fu uscito dal cenacolo...”; questo, il riferimento temporale, che introduce il passo del Vangelo di questa V Domenica di Pasqua, un brano molto breve, ma altrettanto ricco di significati, che interrompe il racconto delle apparizioni.

Questo passo di Vangelo si riferisce all’ “Ora” riguardo alla quale Gesù aveva detto: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me...” (Gv. 12,32) un innalzamento, che è, appunto, la sua Gloria, non quella trionfalistica alla quale, con la nostra logica mondana, siamo abituati, ma la Gloria, che è il frutto dell’Amore incondizionato ed assoluto, che il Figlio ha per il Padre e, in Lui, per ogni creatura che ne porta, indelebile, l’immagine. In Giovanni, l’idea della Gloria è quella della “rivelazione”: una rivelazione progressiva che Gesù realizza per mezzo di “segni” e, soprattutto, per mezzo della sua “adesione incondizionata” al progetto del Padre, fino alla morte di Croce. La totale fedeltà alla volontà del Padre e la totale coerenza nell’esecuzione del progetto divino danno a Gesù l’unicità del suo essere figlio.

Nell’Antico Testamento si credeva che Dio manifestasse la sua Gloria nei fenomeni della natura: fuoco, lampi, tuoni, tempeste, ecc; provocando un misto di curiosità che attrae e di paura che provoca distanza. Per il Vangelo di Giovanni, Gesù manifesta la Gloria di Dio per il fatto di essere uno di noi, estremamente umano, al punto di diventare divino. La Gloria di Dio è l’umano Gesù, che conferisce al nostro essere “umani” la sua espressione più alta. Nella cultura biblica, la “gloria” è qualcosa che ha a che vedere con l’autorevolezza e la rilevanza di una persona: è il suo valore. Glorificare qualcuno significa farlo conoscere per quello che è, per quello che conta. Per Gesù non c’è altro modo che questo: avvicinarsi a noi, abbassarsi, farsi prossimo, consegnarsi in totale disponibilità al piano salvifico. Ecco perché in Gesù il Padre è glorificato: è Lui che ha dispiegato dinanzi ai nostri occhi l’amore trinitario, e l’ha fatto schierandosi decisamente a servizio della vita, fino ad offrirla per noi. L’Ora del Calvario diventa, dunque, per Gesù l’occasione suprema per far conoscere chi è davvero Dio: Colui che, per dare la vita, ama fino alle estreme conseguenze e si lascia inghiottire dalla morte; dice Gesù “Nessuno  ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.

L’amore di Dio, del Figlio Gesù, che è Dio col Padre, passa, dunque, attraverso la Croce, senza la quale non si può comprendere il Mistero di Cristo Redentore; perché, senza quella Croce, Gesù di Nazareth, è solo uno dei più grandi personaggi della storia, del quale tanto si è detto e tanto, ancora, si può dire; ma, è esclusivamente per quella Croce, sulla quale è morto per amore, che noi lo riconosciamo come nostro Dio. Per amore, il Figlio di Dio si è umiliato, si è fatto servo e servo obbediente, “fino alla morte e alla morte di croce” (Fil.2,7-8), e il suo Amore, per l’umanità peccatrice, è gratuito: nessuno di noi può accampare meriti, per riceverlo, e nessuno può dare niente in cambio, tuttavia Dio, in Cristo, ci ama e ciò in piena assoluta gratuità.

Questo brano ci porta all’essenziale: le nostre azioni di amore saranno il giudizio finale sulla nostra vita: “non solo con parole e bocca, ma con azioni e in verità” (1 Gv 3,18). E non si tratta solo di rendere un culto a Dio, bensì di incarnare la Vita stessa, credere che la nostra “umanità” viene da Dio ed in questa umanità piena di amore e di fedeltà si rivela il centro della nostra fede. Forse abbiamo perso l’essenziale e lo rivestiamo di precetti, di norme, di tradizioni, deboli segni per l’uomo d’oggi, perché questo “amore fraterno” non emerge nelle nostre relazioni. Possiamo essere commensali di Lui, condividere lo stesso Pane e Vino, ma col cuore lontano, magari già a braccetto con la negazione del progetto divino. Certo la Celebrazione è necessaria, ma diventa insipida se non ci sprona ad amarci. E questo amarci implica azione, coraggio, annuncio e denuncia, nella coerenza del rispetto alla Vita di ognuno.

Gesù nel congedarsi dai suoi, sapendo che è giunta la sua ora, non chiede niente per se stesso, chiede a noi di amarci; solo così Lui potrà continuare a vivere in noi. Altrimenti, lo seppelliremo con tutte le pompe ed incensi, ma non sarà più con noi, sarà solo un’immagine da contemplare e non un progetto da vivere. Di fronte all’imminente partenza di Gesù, la comunità ha un solo cammino per continuare a vivere unita a Lui: vivere l’Amore. É lo statuto e l’identità di chi pretende di rimanere unito a Gesù. É il “comandamento nuovo”: «Amatevi gli uni gli altri». Gesù non dice: “amatemi come io vi ho amato”. Non chiede retribuzione per se stesso. Chiede che i discepoli si amino gli uni gli altri. É così che ameranno Gesù. L’amore è attivo e deve essere manifestato con gesti. In questo modo, la rivelazione di Gesù si prolunga nell’amore delle persone nella comunità: “Da questo riconosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri”. Niente è più scandaloso agli occhi degli uomini, che vedere dei cristiani rifiutare la testimonianza del loro amore vicendevole. È necessario, però, che questa testimonianza non sia puramente esteriore: essa deve esprimere una vera e profonda unità di fede e di amore. Un amore forzato è solo una maschera dell'amore, frustrante per chi lo offre ma, forse ancora di più, per chi ne è destinatario. Amare è cosa difficile. Amare non è solo dare, è molto di più: è donarsi! Comprendere gli altri, capire le loro difficoltà e le loro necessità, perdonare con tutto il cuore, servire senza speranza di essere ricambiati. Amare significa giungere, se è necessario, fino a dare la vita, sull’esempio di Cristo. Amare vuol dire rinunciare a se stessi per pensare agli altri.

Il comandamento nuovo non è semplicemente amatevi, ma amatevi gli uni gli altri. Parole che ci donano infiniti oggetti d’amore: gli altri, tutti. Guai se ci fosse un aggettivo a qualificare chi merita il nostro amore: giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani. È l’uomo, ogni uomo, perfino l’inamabile, perfino Caino. L’altro mi riguarda, appartiene alle mie cure, è scritto nei miei pensieri, gli sto accanto. Non è mio pari, è di più.

Il comando nuovo continua: «amatevi come io vi ho amato». La novità del cristianesimo non è l’amore, ma “l’amore come quello di Cristo”. Gli uomini amano, il cristiano ama al modo di Gesù, custodendo nel cuore, ravvivando nella memoria il «come» Gesù ha amato. Questa è “la scuola dell’amore”. L’amore è Lui: quando lava i piedi ai suoi discepoli; quando si rivolge a Giuda che lo tradisce chiamandolo: amico; quando prega per chi lo uccide: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”; quando piange per l’amico morto o esulta per il nardo profumato dell’amica, o ricomincia dai più perduti. Si tratta di riprendere in mano il Vangelo e ritrovare e ricomporre tutte le tessere del mosaico di come Gesù ha mostrato Amore. E questo «come» ritma tutto il Vangelo, racchiude l’essenza del nostro discepolato, contiene la statura dell’uomo perfetto: vivere come lui, misericordiosi come il Padre, fare la sua volontà in terra come in cielo.

Il comandamento dell’amore era già presente nella legge antica: “Ama il tuo prossimo come te stesso” recita il Libro del Levitico (Lv.19,18); comandamento che Gesù ha arricchito, esortando gli uomini alla riconciliazione e all’amore rivolto anche al nemico: “Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo, e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano...sarete perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. ( Mt.5,43-48)

Adesso il Signore chiede di andare oltre, nella via dell’amore, che ormai deve avere una portata più vasta, perché la sua misura dell’amore vero è quella di Cristo, il quale ama da Figlio e perciò da Dio.

Il comandamento nuovo è un’eredità lasciataci da Cristo, alla vigilia della Sua Passione, Morte e Resurrezione; è, perciò, un dono pasquale da accogliere, da vivere e da diffondere, con la stessa modalità con la quale, il Signore Gesù ci ha amato.

 

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