11 Luglio 2010 - XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Pubblicato:
lunedì 5 luglio 2010
Se vuoi,
prima di leggere la riflessione,
clicca qui per le letture
dal Lezionario
Gesù è in viaggio verso
Gerusalemme, un viaggio che non si è compiuto “in quel
tempo”, come ci dice l’incipit del brano di Vangelo che
la Liturgia di questa XV Domenica del T.O. ci propone alla
meditazione, non è astratto e lontano dalla vita ma passa
per le strade degli uomini. Gesù lo compie “ora”, riguarda
la nostra vita, è per la nostra salvezza. Come abbiamo letto
nel brano tratto dal libro del Deuteronomio: “non è nel
cielo, perché tu dica: chi salirà per noi il cielo per
prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non
è di là dal mare, perché tu dica: chi attraverserà per noi
il mare per prendercelo e farcelo udire sì che possiamo
eseguire?
Anzi, questa parola è molto vicina
a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta
in pratica”. Il Vangelo è vicino, si fa davvero prossimo
a ciascuno di noi, non è lontano nel tempo ma è “ora”, oggi.
Gesù risponde ad un dottore
della legge che, come noi, continua a non voler capire chi
sia il suo prossimo e interroga Gesù con parole alte e,
anche, vere: “Maestro, che debbo fare per ottenere la
vita eterna?” Sono parole che anche altri avevano
rivolto a Gesù: ricordiamo il giovane ricco. Ma non c’era
sincerità nel cuore di quel dottore della legge, tanto che
alla risposta di Gesù sul primato del comandamento
dell’amore, tenta di giustificarsi: “Chi è il mio
prossimo?”. Gesù, così come fece con il giovane ricco,
non gli risponde con un discorso che è “al di là del
cielo o al di là del mare” ma inizia dicendo: “un
uomo scendeva da Gerusalemme verso Gerico e incappò nei
briganti …”. Gesù parla di una strada che tutti
conoscevano e racconta un fatto che, probabilmente, capitava
spesso. Del malcapitato Luca non ci dice né il nome né la
condizione, ma solo che era un viandante che percorreva una
strada pericolosa. Infatti, lo ritroviamo spogliato e
malmenato, lasciato solo, mezzo morto, lungo i bordi della
strada, una strada da cui passano in tanti.
Il primo che passa è un
sacerdote, un “uomo di chiesa”, diremmo oggi, preoccupato di
andare a celebrare il culto, con la paura di rischiare
l’impurità, nel caso avesse toccato un cadavere o del
sangue. Per lui, Dio è rinchiuso nel Tempio e nel Tempio và
per incontrarLo. Il sacerdote vive secondo una regola di
vita che suona pressappoco così: “ciò che è mio è mio e me
lo tengo io”; per questo, vedendo il moribondo, “passa
oltre”, dall’altra parte. Quante volte ci sarà capitato di
“passare oltre”, magari perché dovevamo andare a Messa,
incuranti del fratello che il Signore aveva messo sulla
nostra strada per fargli arrivare una parola di conforto o
semplicemente un sorriso o un po’ di compagnia non curanti
che era stato aggredito e “lasciato mezzo morto dai
briganti” e che, probabilmente, lo stavamo consegnando
nelle mani di altri briganti.
Il secondo che passa è un
levita: anche lui è un uomo di chiesa, con le stesse
preoccupazioni del sacerdote. Anche lui continua per la sua
strada perché la sua preoccupazione consiste nello studiare
la Legge e nel discutere su “chi è il mio prossimo”,
non nel sapersi avvicinare per essere lui prossimo di chi ha
bisogno: come quando non ci siamo fermati con quel fratello
perché ci avrebbe fatto perdere la Messa o una catechesi
sull’essere fratelli o sull’amore
Il terzo che passa è un
samaritano. I giudei detestavano i samaritani e, come
abbiamo visto due domeniche fa, la cosa era reciproca. Per i
giudei, il samaritano era un eretico, era di razza impura e,
per questo, era considerato un nemico da emarginare. Il
samaritano non si aggrappa ad un codice di leggi, agisce
semplicemente spinto da ciò che sente e dalla sua esperienza
di emarginato: si avvicina al ferito e “sente compassione”.
È da notare che Luca usa questa espressione oltre che con
Gesù e con il Padre solo con il samaritano. Aver compassione
è un gesto prevalentemente divino che si traduce nella piena
solidarietà con i reietti, con coloro che sono lasciati “mezzi
morti” ai margini della vita. Solo il samaritano, perché
vive sulla sua pelle l’emarginazione, è capace di
compassione, di farsi prossimo di colui che è stato
aggredito. L’eretico, l’impuro, il nemico, è capace di
vivere la Legge pur senza averla studiata né celebrata. Il
samaritano viveva secondo la regola di vita: “ciò che è mio,
ti appartiene e lo condivido con gioia”. Grazie alla sua
misericordia il suo peggior nemico ricupera la vita. Il
samaritano non ebbe bisogno di andare al Tempio per la
celebrazione del culto per incontrare Dio: lo incontrò nel
nemico lasciato mezzo morto. Lo sventurato caduto nelle mani
dei briganti, probabilmente è un giudeo, vittima di quanti
vivono secondo la regola di vita: “ciò che è tuo è mio e me
lo prendo io”.
Tre categorie di persone con
tre regole di vita: per il sacerdote ed il levita spinti dal
loro egoismo “ciò che è mio è mio e me lo tengo io”; per i
briganti, i prepotenti “ciò che è tuo è mio e me lo prendo
io”; per il samaritano “ciò che è mio, ti appartiene e lo
condivido con gioia”. Gesù ci chiede: “
Chi di questi tre ti sembra sia stato
prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?
“.
Il sacerdote ed il levita non
sentono compassione e quell’uomo mezzo morto restò solo: è
un uomo solo; in lui possiamo vederci tanti uomini e donne,
piccoli e grandi, giovani e anziani, lasciati mezzi morti ai
margini delle strade di questo mondo. In lui possiamo
vederci i milioni di profughi che fuggono dalle loro terre;
i condannati a morte isolati da tutti; popoli interi
schiacciati dalla guerra e lasciati soli ai margini della
storia; o tutti quelli che muoiono di fame e di torture, di
violenza e di abbandono; o tutte quelle persone che vivono
il dramma della solitudine. Ma se tanti sono quelli che
possiamo identificare con quell’uomo solo, ugualmente alto è
il numero dei “sacerdoti” e dei “leviti” che continuano a
camminare e ad andare oltre, dalla parte opposta a quella
dei poveri. Il Vangelo nota che passavano per quella “medesima
strada”; quasi a dire che quell’uomo mezzo morto non era
sconosciuto e lontano tanto da non accorgersene. I poveri
sono ormai conosciuti, la televisione e i giornali ne
parlano, non sono più lontani. Eppure, come deviati da
un’infelice abitudine, come se nulla fosse, passiamo
dall’altra parte, diretti verso altri interessi: i nostri.
Il sacerdote e il levita non amavano che se stessi e i loro
impegni rituali e chi è preso da sé stesso, non sente che
sé stesso, vive senza compassione per gli altri e passa
oltre.
Ma dov’è questo oltre? Cosa
c’è oltre? Oltre l’uomo c’è il nulla, l’assurdo, l’inutile!
Nessuno può dirsi estraneo alle sorti dell’uomo, nessuno può
dire: io non c’entro. Siamo tutti sulla stessa strada piena
di briganti in agguato pronti ad aggredirci; ci salveremo o
ci perderemo tutti insieme.
Non dobbiamo fermarci a
discutere ma agire come quel samaritano: avere compassione,
e farci prossimi gli uni degli altri. La compassione è il
meno sentimentale dei sentimenti, il meno sdolcinato, il
meno emozionabile, è “soffrire insieme”. La compassione non
è un impulso naturale, è una conquista. Farsi prossimo è una
conquista che mette al centro il dolore dell’altro.
Per descrivere la compassione
Luca mette in fila dieci verbi che, se letti da soli,
compongono una meravigliosa poesia:
lo vide,
ebbe compassione,
si fece vicino,
fasciò le ferite,
versò olio e vino;
lo caricò,
lo portò,
tirò fuori due denari,
li diede,
ciò che spenderai in più, te lo pagherò al
mio ritorno.
Questo è il nuovo decalogo,
i nuovi dieci comandamenti di ogni uomo, credente o no,
perché gli uomini siano “prossimi”.