4 Luglio 2010 - XIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Pubblicato:
lunedì 28 giugno 2010
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dal Lezionario
“Il
Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due
a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per
recarsi”. Il Signore sceglie 72 discepoli, 70 secondo
alcuni manoscritti, e li invia due a due nei luoghi che Lui
attraverserà durante il suo viaggio verso Gerusalemme. Il
numero 72 o 70 è emblematico: settantadue erano le nazioni
della terra, secondo l’antica tradizione ebraica, e ricorda
i settanta anziani di Israele. Con questo Luca vuole dirci
che Gesù, sin dall’inizio, ha nei suoi pensieri tutti i
popoli della terra e, a loro, invia i discepoli perché
nessuno deve restare fuori dell’annuncio del Vangelo. Con lo
sguardo rivolto sino ai confini della terra Gesù dice ai
discepoli: “La messe è molta”, mentre pensa a questa
moltitudine immensa e, con un accento di tristezza,
aggiunge: “ma gli operai sono pochi”. C’è una
sproporzione tra l’enorme attesa e il piccolo numero di
discepoli. Ma il problema non è tanto nel numero quanto
nella qualità degli annunciatori e dell’annuncio che saranno
capaci di fare. Per fermentare la pasta, senza dubbio, è
importante la quantità di lievito, ma è fondamentale che il
lievito sia “davvero lievito”. Può succedere che gli operai
si lascino prendere dalle proprie preoccupazioni e
trascurino l’annuncio del Vangelo o, peggio che mai, lo
annacquino a loro convenienza. Allora ecco che il Vangelo ci
suggerisce l’identikit degli operai inviati a lavorare dal “Signore
della messe”:
·
sono
persone che pregano perché sentono l’urgenza del Regno di
Dio e perché sanno che la missione dei cristiani è grazia
che viene da Dio, il progetto viene ed è di Dio (v. 2);
·
sono
persone che annunciano il Regno in una società piena di
conflitti,
coscienti
che la persecuzione è una costante, tanto nella vita di Gesù
quanto in quella dei discepoli (v. 3);
·
sono
persone povere (v. 4);
·
sono
persone di pace ed iniziano un nuovo tipo di relazione tra
le persone (vv. 5-6);
·
sono
persone che non cercano guadagno, che si spogliano del
“possedere” perché sanno che l’accumulo dei beni,
soprattutto quelli che vengono dalla predicazione, tradisce
il progetto di Dio, confondendolo con quello della società
che perseguita e uccide il Maestro (v. 7);
·
sono
persone che si preoccupano di chi soffre e lavorano per
integrare gli emarginati (vv. 8-9);
·
sono
persone che non accettano compromessi con chi rigetta il
progetto di Dio (vv.10-11);
·
soprattutto
sono persone che non cercano il loro potere e successo ma
“la maggior Gloria di Dio”.
Domenica
scorsa abbiamo visto che l’itinerario del cristiano è
seguire Gesù fino a Gerusalemme, con la medesima sua
radicalità nelle scelte per Dio. Oggi ci è richiesto un
ulteriore impegno, quello di divenire suoi missionari “fino
agli estremi confini della terra” per continuare la
missione affidata ai primi discepoli che “egli designò e
inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo” ma,
soprattutto, nello stile di quei discepoli.
Lo stile
della missione deve essere libertà e distacco: “non
portate borsa, né bisaccia, né sandali”; niente deve
distrarre dalla méta, con un rigore che testimonia rispetto
per l’opera che ci è affidata: “non salutate nessuno
lungo la strada”. Ma, al tempo stesso, la missione è
rivolta alle persone, ai bisogni concreti, alle famiglie,
portando pace e consolazione, che è il dono dello Spirito
Santo.
“In
qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
Curate i malati che vi si trovano, e dite loro: È vicino a
voi il Regno di Dio”. Verrà naturale per chi apprezza
questi doni spirituali ricambiare con doni materiali che
danno sostentamento e libertà d’azione al missionario.
“…
mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora
ha diritto alla sua ricompensa “.
Il senso
dell’annuncio missionario è, alla fine, un giudizio:
l’accoglienza o meno del missionario decide del proprio
destino di salvezza: “Chi ascolta voi ascolta me, chi
disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza
colui che mi ha mandato” (Lc 10,16). Il gesto di
scuotere la polvere è come un richiamo forte alla
responsabilità personale: “sappiate però che il regno di
Dio è vicino” e Dio domanderà conto del vostro rifiuto e
dell’opportunità persa: “Io vi dico che, in quel giorno,
Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città”.
“… e li
inviò a due a due avanti a sé”. San Gregorio Magno
commenta che Gesù mandò i discepoli due a due perché la
prima predica fosse, anzitutto, l’amore vicendevole: la
comunione tra i fratelli è la prima grande predicazione e
l’arma più forte per vincere la durezza dei cuori.
“Ecco, vi
mando come agnelli in mezzo a lupi “. Non è agevole per
un “agnello” far cambiare vita al “lupo”. E tutto è ancora
più difficile se questi “agnelli” devono presentarsi senza “borsa,
né bisaccia, né sandali”. L’unica loro forza è l’amore,
è una “forza debole”, perché non ha né armi, né arroganza;
eppure è forte a tal punto da toccare i cuori degli uomini.
Una
missione, dunque, che prima di tutto è testimonianza e poi
annuncio. La crisi delle vocazioni alla vita sacerdotale e
religiosa ci dice quanto oggi sia difficile accogliere
l’invito e le speciali vocazioni al servizio missionario. La
messe oggi è davvero grande e gli operai stanno
diventando sempre di meno e per lo più non sempre
all’altezza del compito, quando la fragilità umana prende il
sopravvento rispetto alla stessa grazia sacramentale.
“I
settantadue tornarono pieni di gioia”: i settantadue
vanno e quando torneranno non avranno parole per esprimere
la loro meraviglia per i tanti prodigi che hanno visto ma
Gesù frenerà la loro gioia dicendo: “Rallegratevi
piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nel cielo”.
Non è
cambiato lo scenario dell’umanità dai tempi di Gesù: sono
ancora tanti quelli che sono suoi discepoli; tanti quelli
che Lo cercano in mille modi per ritrovare la propria
identità di figli di Dio; tanti sono gli smarriti; basta
dare uno sguardo all’umanità: un’umanità che suscita sempre
la compassione del Padre, compassione che si fa Amore che si
fa vicino, con l’andare dei discepoli ad annunziare o
ricordare che Dio ama e ci è accanto.
Non
conteranno le conquiste né le opere davanti a Dio: conterà
il cuore.
Non è
quello che facciamo per Dio, ma quello che siamo e
diventiamo per Lui ciò che costituisce la nostra grandezza e
quindi l’autentica riuscita e felicità. La gioia di San
Paolo era di possedere ormai pienamente l’Amore di Dio: “Niente
mi potrà separare dall’amore di Dio in Cristo Gesù nostro
Signore” (Rm 8,39). E la prima lettura di questa
domenica parla proprio di questa gioia più profonda di chi
conosce e accoglie la consolazione di un Dio che è tenero e
tenace come il cuore di una madre: “Come una madre
consola un figlio, così io vi consolerò: i suoi bimbi
saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno
accarezzati”. La forza dell’apostolo sta nel sentirsi
tutto e sicuro nelle mani di Dio: persecuzioni e insuccessi
non lo toccano più. Certo, si tratta di una sicurezza che
non deve essere spavalderia; era capitato a Pietro, che
aveva dichiarato con ingenuità: “Sono pronto a tutto,
fino alla morte per te!” e Gesù l’aveva avvertito: “prima
che il gallo canti...!”
Evangelizzare è certamente “rendere ragione della
speranza che è in noi” (1Pt 3,15); ma prima della
parola, è la testimonianza della vita ad essere richiamo e
stimolo alla fede: il cristiano coerente è già Vangelo vivo
con la sola sua presenza, accompagnata dalla carità.
Scrive don
R. Maggioni:
«Diventiamo
operatori della verità nella carità, ciascuno in quel
fazzoletto di tempo e spazio in cui il Signore l’ha chiamato
a fiorire! Il mondo si rinnova col rinnovare ogni piccola
tessera di quel puzzle che diviene sempre più bello nella
misura in cui si colora dei colori del Regno di Dio».